L’Italia non è un paese per Infermieri ora è chiaro ed evidente su tutto il territorio nazionale.
L’Italia non è più un paese per infermieri. Un’affermazione grave, che trova il suo fondamento nelle evidenze dell’assistenza nel nostro paese, specie alla luce del nuovo modello disegnato dal PNRR e dal decreto 77/2022 che riordina l’assistenza sul territorio e, soprattutto, dal pesante monito che le principali organizzazioni internazionali – OCSE ed Eurostat – fanno all’Italia sottolineando la fortissima carenza di infermieri e di conseguenza il rischio di non produrre un’assistenza di qualità e di lasciare “sole” le persone più fragili e bisognose.
I dati parlano chiaro.
La nostra Federazione sono anni che dichiara una carenza di almeno 65-70.000 infermieri sia negli ospedali che sul territorio, dato confermato dalla Corte dei conti a fine 2022, quando, nella sua memoria sul NADEF, la nota di modifica al DEF, ha confermato una carenza d 65.000 unità.
Peggio va a livello internazionale, dove in queste ultime settimane il CREA Sanità, Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità, riconosciuto come Centro di ricerca da Eurostat, Istat e Ministero della Salute, ha messo nero su bianco nel suo Rapporto annuale, una carenza di infermieri che supera le 250mila unità rispetto ai parametri EU, specie se ci si riferisce alle esigenze degli over 75. Di nuovi infermieri, sottolinea il CREA, ne servirebbero 30-40.000 l’anno (considerando anche il numero di pensionati/anno: circa 9mila), numero irraggiungibile anche perché la propensione a intraprendere la professione in Italia (scarsa attrattività legata sia a questioni economiche che di carriera) è un terzo che negli altri Paesi EU.
La carenza, inoltre, non genera solo problemi a livello di organizzazione del lavoro, ma porta, ad esempio in modo pesantissimo, a generare fenomeni di violenza sugli operatori sanitari: quando un paziente è costretto a ore di attesa al pronto soccorso per poter accedere a una prestazione per carenza di personale che può assisterlo, spesso aggredisce – verbalmente, ma anche fisicamente – chi ha il primo contatto con lui che, in questo caso, sono proprio gli infermieri del triage. Un recente studio promosso dalla FNOPI e condotto da otto università su tutto il territorio italiano, ha evidenziato che il 32,3% degli infermieri (quasi 130mila) dichiara di aver subito un episodio di violenza verbale e/o fisica nell’ultima settimana e/o negli ultimi 12 mesi.
Sul territorio, anche per limitare le aggressioni, sarebbe necessario applicare il nuovo modello di assistenza previsto nelle nuove leggi, sviluppando il territorio perché sia filtro all’ospedale, riducendo le attese ai pronto soccorso e anche le liste di attesa in generale. Per questo è essenziale lo sviluppo della figura dell’infermiere di famiglia e comunità, che evita ricoveri impropri, come ha dimostrato l’esperienza del Friuli-Venezia Giulia, dove l’infermiere di famiglia e comunità è attivo da quasi venti anni e si è riusciti con questo modello a ridurre di circa il 15% gli accesi impropri agli ospedali.
Le cause della carenza sono evidenti: blocco delle assunzioni da oltre dieci anni (e che ancora non è del tutto interrotto); scarsi numeri di posti a bando negli Atenei per le lauree in infermieristica; retribuzioni inferiori di circa il 40% degli infermieri europei; appiattimento della professione che non ha sbocchi di carriera e, quindi, crollo dell’attrattività per i giovani: in alcune Regioni la domanda non riesce nemmeno a coprire i posti messi a bando negli Atenei.
Anche le soluzioni sono evidenti e dovrebbero esserlo altrettanto per la politica e la programmazione.
Cambio di passo nella formazione universitaria, con l’introduzione delle specializzazioni (universitarie) che consentiranno di avere infermieri specialisti di elevata qualità professionale, in grado di gestire una filiera di operatori intermedi che gli infermieri possono coordinare e che a loro riferiscano e facciano capo e con un reale investimento sulla qualità formativa.
Il meccanismo necessario dovrebbe prevedere le specializzazioni, lo sviluppo della laurea magistrale per consentire anche l’accesso più agevole all’area del ‘personale di elevata qualificazione’ previsto dal nuovo contratto e la riorganizzazione delle docenze infermieristiche (oggi c’è un professore in media ogni 1.350 studenti contro uno ogni sei studenti di altre facoltà sanitarie), dei tirocini e dei tutoraggi perché si sviluppino in modo conforme alle norme di legge, un reale investimento delle Regioni.
Ci sono anche altri, possibili, meccanismi per far fronte nell’immediato alla carenza, come, ad esempio, l’allentamento del vincolo di esclusività per gli infermieri in modo che molti possano dedicare ore di lavoro al territorio del tutto carente. Poi, aprire a nuove possibilità di carriera e incrementare le retribuzioni in modo consono alla tipologia dell’impegno professionale e in linea con il resti d’Europa che altrimenti “drena” professionisti formati nel nostro paese.
Senza un intervento efficace e reale della politica e della programmazione che porti qualità dell’assistenza quindi, la sola quantità di operatori non risolve i problemi dei cittadini e del Ssn. Gli infermieri sono i garanti dell’assistenza: senza infermieri – qualificati – non c’è salute.
Cosimo Cicia
Presidente OPI Salerno e Vicepresidente della Federazione Nazionale Ordini delle Professioni Infermieristiche