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Dario Vergassola: «Pechino Express, gli attacchi di panico e l'ironia che aiuta a rimorchiare»

Nonostante sia una persona precisa, Dario Vergassola buca il nostro appuntamento telefonico per qualche minuto. «Scusi, sono appena uscito dall’oculista», spiega poco dopo confermando in parte la nomea di ipocondriaco che è anche diventato l’epiteto che lo ha accompagnato durante l’avventura di Pechino Express insieme a sua figlia Caterina. Purtroppo, il loro viaggio all’interno dell’adventure game di Sky prodotto da Banijay Italia si è fermato quasi ai blocchi di partenza, visto che le Mediterranee hanno scelto di rimandarli a casa già alla seconda puntata anche se Vergassola, comico e artista di spiccato talento, non sembra essersene fatto un cruccio. «Sono uscito e son contento», commenta poche ore dopo la messa in onda della puntata, grato, nonostante tutto, sia di aver avuto l’occasione di passare un po’ di tempo insieme alla sua figliola e sia di essersi messo alla prova con un programma che ha attentato più di una volta il delicatissimo equilibrio che Dario sente di aver raggiunto nella sua vita.

Tutto bene dall’oculista?
«Certo, è tutta colpa dell’autoerotismo che ci rovina».

A Pechino Express è andata bene l’ipocondria, però.
«C’è stato un momento in cui pensavo di avere una paresi: i medici mi hanno detto, però, che era colpa della mascherina che avevo tenuto in aereo e che mi aveva fatto addormentare la faccia. Meno male, altrimenti sarei già andato al primo ospedale in India».

Non ne ha visti invece, giusto?
«Li ho visti, è per questo che non ci sono entrato. Dicono, comunque, che ci sono delle eccellenze: ricordo di aver visto un fabbricato un po’ sgangherato che ho scoperto essere un centro all’avanguardia visitato anche da pazienti americani. Gli abitanti li vedi così: scalzi, rovinati, con i bambini che vanno in giro con il cellulare in tasca che, però, non usano come i nostri. Quando ti incontrano ti chiedono come ti chiami, la tua mail e che università hai fatto. Tra 10 anni conquisteranno il mondo». 

È davvero contento che sia finita?
«Col senno di poi dici peccato, eravamo un bel gruppo, ma quando ero lì avrei fatto carte false per uscire. Pechino è peggio di quello che si pensa, quando sei nel buio in mezzo alla giungla alle 9 di sera ti sale l’ansia. La gente, però, è molto gentile, il problema è il sistema igienico-sanitario, che è terribile».

Quando è uscito ha definito questa esperienza un Vietnam: sente di aver esagerato?
«Quando mi chiedono se sia dura io rispondo che è peggio: sei nel nulla, a pranzo una volta avevamo una sola banana e ce l’ha rubata una scimmia che, poco dopo, voleva anche sgraffignare i biscotti che avevo in tasca. Sempre le scimmie, poi, hanno aperto la valigia degli operatori e hanno rubato due batterie nere che si sono portate via urlando come se avessero trovato un trofeo. Insomma, Roma al confronto sembra Berna».

È felice, però, di non aver mollato e di aver trovato il coraggio di partire?
«L’ultima cosa che avrei pensato di fare era un programma come questo. Quando l’agenzia ci ha nominato abbiamo tentennato fino all’ultimo, ma poi abbiamo ceduto. Sono stato un mese senza dormire, temevo che arrivassero gli attacchi di panico e di ansia che ho spesso qua, invece, se hai il bisogno primario di mangiare e di dormire, non hai tempo di pensarci».

Quando sono iniziati gli attacchi di panico?
«Durante l’adolescenza, intorno ai 16 anni. Sono stato un pioniere di questa roba qua, nessuno sapeva cosa fosse. Sono andato dallo psicologo, ho iniziato a prendere le goccine, ma il problema è che è una condizione invalidante. Chi ce l’ha, lo sa, mentre chi non ce l’ha, non può capire. A un certo punto è arrivata anche la depressione, che è stato il periodo peggiore. Meglio l’ansia».

Oltre alle goccine, che cosa la calma?
«Un giretto in barca. Da solo non andrei neanche a fare la pipì – sono logorroico, devo sempre condividere e sparare cazzate -, ma la mia barchetta mi dà stranamente un senso di pace. A Spezia abbiamo il nostro bar di quartiere, un po’ da sfigati, con dei personaggi tipo Guerre Stellari: siamo gli amici delle elementari, delle medie e delle superiori e io, da figlio unico quale sono, sento con loro un senso di fratellanza, senza contare che ogni giorno è una seduta di psicanalisi in cui racconti quello che vuoi».

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