“Giù le mani della politica dalla cultura” tuona dalle pagine de La Stampa uno storico di vaglia come Marco Revelli, espressione tipica di quel laicismo antifascista e alquanto intollerante che è stato per lungo tempo la cifra di certa intellettualità torinese. Si riferisce alle vicende relative alla nomina dei nuovi vertici e del nuovo direttore del Salone del libro, che con enfasi esagerata Revelli definisce nell’articolo un “gioiello” cittadino.

Non c’è dubbio che Revelli abbia ragione in linea di principio: in un mondo ideale la politica dovrebbe tenersi fuori dalla cultura, privata o pubblica che sia poco importa. In un mondo ideale si presume che la cultura, svolgendosi secondo dialettiche interne, riesca a produrre da sola un minimo di pluralismo. In Italia, purtroppo, questa libera dialettica non ha potuto mai aver luogo e la cultura è stata occupata, quasi militarizzata, da una sola parte politica che ha preteso fra l’altra di eliminare a priori ogni voce discordante. Le mani sulla cultura sono già state belle e messe da tempo e quello che ne emerge oggi non è che il risultato di questo intervento massiccio e a gamba tesa.

Può la politica stare silente? O non deve piuttosto cercare di riequilibrare la presenza delle forze in campo, prima, e lavorare per una depoliticizzazione, ovvero per l’affermazione del principio dell’“autonomia della cultura”, poi? Si può gridare alla censura e al minculpop, urlare in difesa della libertà di espressione, di fronte a una situazione che è frutto di censure e egemonie a sua volta?

È questo il nocciolo della questione che si pone a Torino, a Sanremo e, in prospettiva, si porrà in ogni luogo (cioè quasi tutti) in cui la sinistra ha messo nei decenni scorsi la sua longa manus e la destra ha ora il dovere di intervenire. E non è da meravigliarsi che, se si decide finalmente e come è giusto di fare qualcosa, in molti, per conservare il potere e le loro rendite di posizione, proveranno ad inquinare i pozzi, a giustificare lo status quo facendo passare per libertà quella che è la vita di un gulag (seppure, e per fortuna, solo “culturale”). Non sarà facile compiere questo lavoro perché le strategie retoriche utilizzate sono molto più intuitive e facili da spiegare al grosso pubblico, e il rischio di apparire “censori” è più che concreto. Tanto che gridando alla libertà infranta ci si precostituisce un alibi per il giorno in cui la destra farà le sue scelte. Quanto a creare “eroi di carta”, o se preferite finti “martiri” della libertà, e a capitalizzare la posizione, questo Paese non è secondo a nessuno. Amadeus a Sanremo e Paolo Giordano a Torino si son già preparati.

Corrado Ocone, 19 febbraio 2023

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