Benché quasi il 2% della popolazione in un modo o nell’altro ne risulti o ne sia stato coinvolto, oltre i 120mila soggetti – di cui 36mila poliziotti penitenziari – che ne fanno direttamente parte ogni giorno – a meno che il racconto giornalistico non ne risalti usi e contraddizioni, o non siano i partiti politici a farne proprio slogan elettorale – del carcere in Italia si conosce poco e male e altrettanto scarse sono le informazioni su quale tortuoso percorso di vita attenda chi, una volta scontato il proprio debito con la giustizia, esce dal carcere.
Eppure, tanta parte di quello che accade nella collettività è influenzata dalle cangianti politiche penitenziarie, spesso condizionate dai movimenti di opinione che di volta in volta si formano a seguito di drammatici eventi della cronaca nonché direttamente dipendenti dalle disfunzioni del sistema giudiziario.
Sono però soprattutto le irrisolte emergenze economiche, sociali ed etniche dei territori in ambito nazionale e internazionale, al pari del disadattamento della tossicodipendenza e della malattia mentale, a rendere le finalità del carcere nel Paese sancite dal comma 2 dall’articolo 27 della Costituzione – Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato – qualcosa di meramente teorico e del tutto illusorio.
Narrare di carcere quale precipitato della società, descriverne i problemi per affrontare la generale insoddisfazione degli scopi di una istituzione che assorbe oltre un terzo del bilancio del ministero della Giustizia e altrettante ingenti risorse dagli enti territoriali, indicare disagi ed esigenze dei protagonisti, tra cui alcuni non a caso misconosciuti servitori dello Stato, può contribuire alla umanizzazione e al recupero della funzione risocializzante della pena quale irrinunciabile presupposto di una civile convivenza sicura e pacifica.
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