Sabato 14 gennaio alle 20.30 e domenica 15 gennaio alle 15.30 debutta al Teatro Alighieri di Ravenna la Stagione d’Opera e Balletto 2023 con una nuova produzione – “Il Tamerlano” su musiche di Antonio Vivaldi (ma non solo) – con Accademia Bizantina diretta da Ottavio Dantone, per la regia di Stefano Monti.
L’opera barocca – in questo nuovo allestimento sforbiciata e resa più asciutta per renderla più aderente alla sensibilità contemporanea – debuttò quasi 270 anni fa durante il Carnevale ma, dice il Maestro Dantone, “le emozioni sono le stesse di tre secoli fa, basta saperle trasmettere”. Anche il regista Stefano Monti mira a sottolineare tanto la dimensione barocca quanto atemporale e vicina alla sensibilità contemporanea della rappresentazione. Obiettivo perseguito anche attraverso l’integrazione dei diversi linguaggi artistici: dalla musica al canto, dal teatro di figura alla danza, che con le coreografie di Marisa Ragazzo e Omid Ighani per la DaCru Dance Company diventa un’amplificazione degli stati d’animo dei personaggi.
A questo proposito sono molto interessanti gli appunti sul montaggio coreografico di Marisa Ragazzo: “il lungo e minuzioso lavoro relativo all’opera è iniziato in una residenza dove coreografi e danzatori hanno vissuto ogni aspetto del progetto, dalla lettura dei recitativi all’ascolto approfondito delle arie, ogni cosa è stata condivisa, analizzata e discussa. Un lavoro certosino e molto appassionato e forse è stato proprio quest’ultimo aspetto a creare un ambiente perfetto, essenziale per un lavoro così incentrato sul desiderio di voler fondere le tre arti in un’unica dimensione. Musica, canto e danza in una mescolanza emancipata e molto innovativa basata sul concetto primario che cantante e danzatore siano un unicum, il primo rappresenta il corpo fisico e il secondo il corpo sottile, lo spazio delle risonanze, tra loro un stretto legame animico che non esprime solo un concept ma anche una totale fusione in palcoscenico. I danzatori di fatto sono l’estensione del personaggio stesso, ne amplificano stati d’animo e vibrazioni seguendo la narrazione con un altro linguaggio, quello fisico di chi danza e lo fanno attraverso un lavoro elaborato su partiture coreografiche nelle arie e con un lavoro di verbatim dance theatre nei recitativi. Per giungere a questo procedimento, ogni danzatore ha imparato a memoria, come fosse un attore con il copione di scena, ogni aria e recitativo; è stato un lungo e faticoso lavoro ma estremamente appassionante e l’unico che ci consentisse di arrivare a questa fusione di arti che era il nostro obbiettivo.”
Le voci sono dei baritoni Bruno Taddia (il 14) e Gianluca Margheri (il 15), del controtenore Filippo Mineccia e del contralto Delphine Galou – rispettivamente Bajazet, Tamerlano e Asteria. Completano il cast Marie Lys come Irene, Federico Fiorio come Andronico e Giuseppina Bridelli come Idaspe. In tutto sei cantanti accompagnati dai sei giovani danzatori della DaCru Dance Company. Il disegno luci è di Eva Bruno, mentre i contenuti video e 3D sono curati da Cristina Ducci e le illustrazioni sono firmate da Lamberto Azzariti.
L’opera è costruita su personaggi storici ma la trama s’incentra sulle passioni umane che si snodano attorno a un monolite di “quasi” kubrickiana memoria che si staglia sulla scena per perseguire la poetica della “maraviglia” barocca ma anche il senso di uno spazio fuori dal tempo. Il pretesto è infatti storico quanto lo sono il sultano dell’Impero Ottomano Bayezid I (o Bajazet) e il condottiero mongolo Timur (Tamerlano) che lo fece prigioniero nella battaglia di Ancyra nel 1402.
Tamerlano ha in suo potere il sultano vinto e vuole anche la di lui figlia Asteria, già innamorata di Andronico. Fra dramma del potere e intrighi d’amore ecco che Bajazet infine decide di togliersi la vita per sottrarsi al giogo di Tamerlano e con il suo gesto placa l’ira del tiranno e libera anche la figlia dalle di lui voglie, restituendola al suo amato. Un lieto fine, si fa per dire, tanto più drammatico e amaro perché è pur sempre centrato sul suicidio e sul sacrificio del sultano.
Domenica 15 gennaio l’opera sarà trasmessa in diretta su operastreaming.com, il portale dell’opera che porta nel mondo le produzioni dei teatri dell’Emilia-Romagna. Dopo la prima ravennate, “Il Tamerlano” visiterà i teatri coproduttori dell’allestimento: Piacenza (20 e 22 gennaio), Reggio Emilia (27 e 29 gennaio), Modena (3 e 5 febbraio) e Lucca (17 e 19 febbraio). Info e prevendite: Biglietteria Teatro Alighieri – tel. 0544 249244 – www.teatroalighieri.org
STEFANO MONTI: TAMERLANO VICENDA DI PASSIONI SENZA TEMPO, BAROCCA MA FRUTTO DELLA CONTAMINAZIONE DEI GENERI E ATTUALISSIMA
Incontro il regista Stefano Monti alla fine della seconda sessione di prove d’insieme. Musicisti, cantanti e danzatori stanno già sciamando via. “Ci sono autorevoli critici e musicologi che sostengono che il Barocco è un po’ la musica del futuro, per il superamento dei generi e poi anche per i suoi ritmi. – dice subito – Mi viene in mente che c’è anche un gruppo rock che si chiama Baroque (ride, ndr). La storia del Tamerlano ha dei riferimenti storici precisi. Ma è astorica nella sostanza, è senza tempo. Però i vissuti dentro l’opera, i vissuti umani sono quanto di più universale, appunto atemporali. Poi c’è questa figura di Tamerlano, definito come “il signore della paura”, Franco Cardini ha scritto un bellissimo libro su questo.”
Tamerlano non è solo “signore della paura”. Chi è stato in Uzbekistan, in Turkmenistan e in Asia centrale ha visto delle realizzazioni meravigliose della civiltà timuride, cioè dell’epoca di Tamerlano. Lì lo venerano come grandissimo riferimento del passato. E lui, benché uomo di guerra e di conquista, grande stratega, quindi certamente uomo di potere incline all’esercizio della forza, allo stesso tempo fu anche protettore di letterati, uomini di scienza e artisti e costruttore di splendidi edifici come nella mitica Samarcanda.
“Sì, è vero. A proposito di uomo di guerra, in questo senso stiamo vivendo il tempo di un’apocalisse. Stiamo vivendo tante cose, in realtà, il Covid, la guerra, tante vicende che ci portano a una dimensione drammatica. Forse anche questa dimensione mi ha dettato un certo tipo di scelte per la messinscena. Pensi che questa produzione doveva andare in scena nel 2021, poi c’è stato il Covid. Ma non è la prima volta che capitano incontri, coincidenze, accidenti che cambiano il corso delle cose. Nel 2021 probabilmente non mi sarei sentito in grado di affrontare quest’opera. Ho messo in scena la Turandot nelle cave di granito, una grande Aida allo Stadio Olimpico con duemila figuranti e cento animali. Quindi non è la preoccupazione di creare una regia e di mettere in scena uno spettacolo, ma in questo caso la grande difficoltà che trovavo era quella di sentire in qualche modo la mancanza di una struttura drammaturgica. Perché abbiamo numeri chiusi, con appena sei cantanti. Anche musicalmente abbiamo arie di diversi musicisti come erano i pastiche dell’epoca. E poi siamo di fronte a stati emotivi, furori, rabbie, inquietudini, conflitti, ma tutto molto mentale ed esistenziale, non c’è lo sviluppo di una trama come sequenza di fatti o avvenimenti drammatici. Questo mi metteva in difficoltà, mancava la teatralità, che invece è fondamentale in una messa in scena. Quindi ho incominciato a interrogarmi su quest’opera. Apparentemente poteva essere la cosa più facile del mondo, non c’è coro e sono solo sei artisti. In verità proprio per questo diventava la cosa più difficile.”
Come ha risolto questo aspetto della drammaturgia e della messa in scena?
“Ho cominciato a immaginare la presenza di altre figure. Poi è arrivato lo stimolo da parte del direttore artistico Angelo Nicastro di creare una collaborazione con la compagnia di danza DaCru, come una sorta di estensione dei sei protagonisti. Anche qui hanno pesato certi incontri. Scopro che i compositori che avevano creato delle arie di quest’opera avevano composto per il teatro delle marionette, perché a Venezia c’era un teatro apposito per le marionette. Quindi ho cominciato a pensare anche a questa relazione: come se ci fosse qualcuno che determinasse le vite dei personaggi. Poi ho letto questo articolo intervista di Jacub Józef Orlinski bravissimo giovane controtenore che pratica la break dance, come liberazione dal punto di vista fisico, del corpo. Invece dal punto di vista vocale lui ha studiato appunto la tecnica del controtenore. Ho sentito la possibilità di mettere insieme questi linguaggi. Non dimentichiamo che nel libretto originale del 1635, messo in scena a Verona, c’è scritto li balli di…, però non ce n’é traccia musicalmente. Poi c’erano i due intervalli, perché originariamente sarebbero tre atti: anche qui ho chiesto un cambiamento, cioè ho chiesto di poter fare un atto unico e anche dei tagli per avere il coraggio di ridurne un po’ la durata. È vero che ci sono pagine musicali bellissime, ma la reiterazione a volte è un ostacolo. Viviamo oggi una vita molto più frenetica, veloce, la soglia di attenzione si è abbassata. Fra l’altro ero stato invitato a vedere qui l’Orfeo di Vivaldi che durava un’ora e mezza e non aveva intervallo, questo lavoro invece durava in origine tre ore con due intervalli. L’Orfeo prevede il coro, Il Tamerlano no. Orfeo vede in scena undici personaggi quest’opera la metà: perché tre personaggi interagiscano tra di loro bisogna aspettare l’ottava scena del primo atto. Quindi tutta una serie di segnali, di sensazioni, di vissuti, letture e incontri mi hanno portato a creare una sorta di trama e ordito che andasse in parallelo con la storia e anzi la supportasse e la potenziasse. Da qui è nata questa contaminazione fra generi. In fondo è un pastiche e sarebbe bellissimo se il risultato finale fosse quello di ottenere né uno spettacolo di danza né un’opera, ma qualcosa di diverso.”
Una sorta di opera sperimentale. Un’operazione anche rischiosa.
“Esatto. Ci siamo presi dei rischi e sempre, in una certa misura, bisogna prendersi dei rischi, avere lo sguardo che va oltre il già visto e sperimentato. A me è sempre piaciuta la dimensione laboratoriale. Ho invitato artisti del teatro tradizionale cinese quando all’Opera di Roma feci la Turandot per la ricostruzione della Fenice, ho invitato un artista del teatro Nō giapponese nella mia storica messinscena di Butterfly, nel Figliol prodigo di Britten a Spoleto tanti anni fa accorciai le distanze fra platea e palcoscenico con il pubblico che quasi poteva toccare i cantanti. Ho sempre cercato di creare degli stimoli affinché ci fosse un tipo di approccio che andasse oltre le convenzioni e la consuetudine.”
Nell’eterna dicotomia fra bene e male incontriamo qui la figura di Bajazet e quella di Tamerlano.
“Lei quindi li divide già in bene e male (ride, ndr) che poi è la stessa cosa che fa Vivaldi, perché lui compone le sue musiche per i personaggi cosiddetti positivi mentre lascia agli altri compositori le musiche dei personaggi negativi.”
Certamente, anche storicamente questa manichea divisione fra bene e male è tutta da vedere. Ma volevo dire che per la figura in particolare di Tamerlano uno si aspetta di vedere e ascoltare un uomo di guerra, truce, violento, un macho, poi salta fuori questa voce da controtenore, un tempo il ruolo dei castrati. Invece la voce di Bajazet è tra virgolette normale, come uno si aspetta di trovare nel teatro contemporaneo. Pensa sia spiazzante questo per il pubblico?
“Certo, siamo di fronte all’iperbole del barocco, periodo oscuro ma con una ricchezza di proposta e di progettualità sia artistica sia musicale sia architettonica incredibile. Comunque queste opere barocche sono dei classici. E io non amo troppo le letture di queste opere appiattite sul contemporaneo. Certo la lettura da un punto di vista anche scenico e scenografico punta a fare in modo che il pubblico si ponga degli interrogativi, senza volere fornire per forza una risposta. Non ho la presunzione di dare delle risposte, ma semmai il piacere di costruire un rapporto dialettico col pubblico stesso. Difatti alla fine i cantanti a un certo vanno sulla passerella e si mettono in empatia con il pubblico, sono essi stessi spettatori di un mistero. Qual è questo mistero? Ognuno legga quello che vuole. È il mistero del teatro?! che è un bel mistero, perché il teatro è sopravvissuto a due anni di pandemia. È il mistero dell’amore che scioglie tutte le tensioni?! O quello della vita e dell’esistenza?! L’impianto scenico voleva enfatizzare un’astrazione e avere un elemento in sé che racchiudesse la possibilità di porsi un interrogativo. Questa la funzione del monòlito che contiene tutta la vicenda nella sua verticalità. Un’astrazione che si può caricare di ogni simbologia e che ognuno può leggere come vuole. Sulla reazione del pubblico, posso solo dire che mi piacerebbe molto poter incontrare un pubblico giovane e nuovo, vergine rispetto all’opera tradizionale. Anche in virtù delle contaminazioni dei generi di cui ho parlato fin dall’inizio.”