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Superbonus, perché il decreto del governo è incompleto

Obiettivi, limiti e scenari del decreto sul Superbonus. L’analisi di Giuseppe Liturri 

Il governo non ne vuole sapere di onorare circa 110/120 miliardi di crediti di imposta già maturati per bonus edilizi (Superbonus 110% ma non solo) e le sta provando tutte per riuscire nell’intento. È un problema di cassa: non si vuole e non si può spendere ciò che è stato legittimamente promesso ai contribuenti. La confessione è arrivata nel pomeriggio di venerdì, quando il vice ministro dell’Economia, Maurizio Leo, ha dichiarato che “anche i mercati ci avrebbero creato grandi problemi”.

Sono passati esattamente 30 giorni dalla conversione del decreto legge “Aiuti-quater” con il quale il governo Meloni era intervenuto a novembre per ridurre l’agevolazione al 90% dal 110% e limitare parecchio l’accesso al beneficio da parte di soggetti diversi dai condomini, ma evidentemente non è bastato e giovedì sera c’è stato il blitz. Non si vedeva da anni un decreto legge pubblicato in poche ore in Gazzetta Ufficiale (come dovrebbe sempre accadere, sussistendo i requisiti di necessità ed urgenza) ed invece al Poligrafico dello Stato hanno fatto gli straordinari per mandare in stampa una seconda edizione notturna.

In sintesi, il governo è intervenuto su tre direttrici. Ha bloccato la possibilità di acquisto dei crediti di imposta da parte degli enti locali, ha fornito certezza circa la separazione della responsabilità tra cedente e cessionario o fornitore in buona fede in caso di truffe o frodi ed ha del tutto inibito la facoltà di cessione/sconto in fattura per lavori ancora da avviarsi, che sono quelli che per i quali non è stata ancora inviata la comunicazione di inizio lavori.

Una prima considerazione sul metodo. Stupisce questo scatto di reni del governo che fino a un mese fa aveva ancora in conversione in Parlamento un decreto legge con cui riformava in sostanza il superbonus per il 2023. Perché non è intervenuto allora, affrontando in modo organico la materia? Non poteva non sapere che già allora preesistevano i problemi a cui si è voluto rimediare con il decreto di giovedì.

Così come è intuitivo che intervenire sulla stessa materia dopo poche settimane semina solo incertezza tra i contribuenti e fornisce l’impressione sconfortante che si navighi a vista. Forse c’erano delle elezioni regionali che annebbiavano la visuale?

Passiamo al merito. Incompleto è l’aggettivo più favorevole al governo con cui si può definire quest’ultimo intervento legislativo. È incompleto perché, da un lato, mette la parola fine alla facoltà di cessione/sconto in fattura senza tradire il legittimo affidamento di chi ha tutti documenti pronti per avviare i lavori (o li ha già avviati) e si vede cambiare le carte in tavola. Piaccia o no, si traccia finalmente una linea rossa su una misura che è platealmente finita fuori controllo. Per risolvere il problema dei crediti, è bene cominciare dal non farli crescere ancora.

Dall’altro, nulla si risolve sul versante dello stock di crediti già maturati. Un decreto completo – per il quale il governo Meloni avrebbe meritato solo elogi – avrebbe dovuto contenere la soluzione avanzata da mesi dall’ABI e ribadita solo pochi giorni fa dal direttore generale Giovanni Sabatini in audizione parlamentare. (“…In particolare, si prevede la possibilità per le banche e Poste SpA di compensare con i predetti crediti d’imposta, solo per i periodi di imposta dal 2023 al 2027 e limitatamente ai crediti la cui acquisizione non si sia ancora perfezionata, una percentuale delle somme relative agli F24 della clientela…”).

Solo in questo caso, le banche avrebbero la possibilità di liberare il proprio portafoglio di crediti e procedere quindi a nuovi acquisti da committenti dei lavori ed imprese che hanno concesso lo sconto in fattura. Invece niente.

È la stessa Abi, con l’Ance, ad essere scettica sul fatto che il chiarimento – peraltro utile ma in modo marginale – delle regole del gioco per la responsabilità solidale possa finalmente sbloccare la circolazione dei crediti. Infatti, la fornitura dei documenti indicati nel decreto avviene già da tempo nella prassi delle cessioni, proprio per consentire a chi compra di poter dimostrare di aver acquistato in buona fede. In altre parole, chi fino a ieri riteneva un rischio comprare i crediti per timore di finire truffato già chiedeva i documenti oggi inseriti nel decreto legge. E la sua percezione del rischio e quindi la propensione ad acquistare ancora, non cambierà di certo per il fatto che siano finiti in Gazzetta Ufficiale gli stessi criteri che già gli consentivano di essere un compratore in buona fede. Non a caso ABI non si sbilancia e parla solo di “contributo a riattivare le compravendite” e riconosce che l’intervento “semplifichi e renda più fluidi i procedimenti”. Non è stato affatto rimosso il più grande ostacolo, che è quello che i crediti finiscano oggetto di sequestro penale, su cui la Cassazione ha esplicitamente previsto anche la responsabilità del cessionario.

Alla fine, l’amara verità resta sempre quella evidenziata sin dai primi provvedimenti del governo Draghi: il governo ha un solo modo per abbattere l’onere per i suoi conti, ed è quello di limitare le cessioni e far sì quindi che il titolare del credito resti col cerino in mano alla fine di ciascuna annualità. In questo modo i crediti di imposta diventano effettivamente, almeno in parte, non pagabili e lo Stato può, a ragione, sostenere che aumentano il deficit in quote costanti negli anni in cui scadono. Viceversa, dovrebbe considerarli in un’unica soluzione nell’anno in cui è maturato il diritto, peggiorando significativamente il deficit del 2022, con impatto anche sul 2023. È (purtroppo) tutto qua. Solo che non lo si vuole ammettere. Ciò che è sfuggito di mano per evidenti difetti di progettazione della norma, la cui responsabilità ricade tutta sul governo Conte 2, deve essere giocoforza recuperato, impedendo di fatto le cessioni e quindi le compensazioni.

L’onere è troppo elevato, sia contabilizzato su un solo anno che spalmato fino al 2026. E che questo sia l’obiettivo è dimostrato anche dal blocco agli acquisti dei crediti da parte degli enti locali per non meglio precisate motivazioni di “coordinamento della finanza pubblica”. Poiché le Regioni avrebbero utilizzato quei crediti per compensarli con debiti fiscali (IRAP e IRPEF/INPS sui dipendenti pubblici, per esempio) entro pochi mesi e, comunque entro il 2026, quale mai avrebbe potuto essere l’impatto sulla finanza pubblica? Parliamo di mero anticipo di somme, peraltro ben remunerate a favore dell’ente locale che avrebbe comprato a sconto, non spese aggiuntive. Invece è stato bloccato tutto, perché, ancora una volta, l’obiettivo è evitare che il contribuente (quindi anche l’ente locale) esegua la compensazione.

All’improvviso il ministro Giancarlo Giorgetti – che francamente ci poteva risparmiare il richiamo all’onere di 2.000 euro a testa – dimentica che, senza i bonus edilizi, la crescita del PIL del 2022 non avrebbe raggiunto nemmeno il 3%, anziché il 3,9% registrato alla fine. Se pure la Commissione nelle previsioni economiche pubblicate il 13 febbraio ha riconosciuto tale ruolo, sarebbe stato meglio evitare di sparare numeri ad effetto.

Ma l’azione del governo appare incerta e contraddittoria anche considerando quanto dichiarato dal sottosegretario Lucia Albano nella risposta all’interrogazione parlamentare del 18 gennaio in risposta alla richiesta di definire meglio la questione della responsabilità solidale, poi risolta nel decreto di giovedì (“…si fa presente che anche tali interventi volti a rimuovere gli ostacoli alla circolazione dei bonus edilizi, sono suscettibili di determinare impatti di finanza pubblica…”).

In un mese, l’impossibile è diventato possibile. Ma proprio per questo, il governo ha ancora la possibilità di porre rimedio ad un intervento claudicante. Deve consentire alle banche di liberarsi dei crediti, aderendo alla proposta dell’ABI. Ovviamente questo significa rinunciare ai versamenti che le banche avrebbero fatto in luogo della compensazione.

E qui ritorniamo alla casella di partenza: per fare partire tale operazione, il governo deve accettare che quelle che ora sono solo passività potenziali si trasformino, almeno in parte, in passività certe. Oppure dichiarare ai detentori di quei 110/120 miliardi (di cui 58 oggetto di cessione al 31/12/2022) che si è trattato solo di uno scherzo e che quei crediti iscritti nei loro bilanci sono carta straccia. Non se ne esce, o il governo accetta un deficit più alto, pur con l’alibi di considerarlo un’eredità tossica del governo Conte 2, o (ri)mette in ginocchio l’edilizia, affollando di nuove le sezioni fallimentari dei nostri Tribunali. Tertium non datur.

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